Risarcimento del danno in ambito sanitario: intervento di sterilizzazione non riuscito e mantenimento del figlio non desiderato

Risarcimento del danno in ambito sanitario: intervento di sterilizzazione non riuscito e mantenimento del figlio non desiderato

a cura di avv. Simone Scelsa e dott.ssa Giorgia Renne

Nei giorni scorsi l’Azienda ospedaliera Spedali Civili di Brescia veniva condannata in primo grado dal Tribunale di Brescia al risarcimento del danno subito da una coppia di genitori che, dopo che lei anni prima si era sottoposta nella stessa struttura sanitaria ad un intervento di sterilizzazione tubarica, si è ritrovata in dolce attesa del quarto figlio. Il Tribunale di Brescia, dato l’evidente insuccesso dell’operazione, liquidava in favore dei due ricorrenti – oltre al danno biologico patito dalla madre – l’importo di €.90.000,00 ai fini del mantenimento dell’inaspettato ultimogenito sino al raggiungimento dell’indipendenza economica, stimata all’incirca al compimento del 25simo anno d’età.

Con la pronuncia in commento il Tribunale di Brescia torna a decidere su una questione già affrontata dalle corti di giustizia nazionali sotto diversi aspetti.

 

NESSO EZIOLOGICO TRA CONDOTTA E DANNO

Un primo elemento oggetto di esame da parte dei giudici sia di merito che di legittimità è la sussistenza del nesso eziologico tra condotta colposa dei medici – consistente nell’imperita o negligente esecuzione dell’intervento di sterilizzazione – e danno evento, ossia la gravidanza che l’operazione avrebbe dovuto scongiurare. A tal proposito, occorre premettere che questo genere di interventi presenta un certo grado di incertezza nel loro buon esito (dipendente altresì dalla condizione clinica della paziente): pertanto, è ben possibile che l’operazione di sterilizzazione mediante legatura e sezione tubarica bilaterale, anche se eseguita correttamente dai sanitari, risulti alla fine inefficace a causa della successiva ricanalizzazione delle tube di Falloppio, con conseguente recupero della fertilità.

Sul punto viene certamente in rilievo uno dei più datati precedenti giurisprudenziali sul punto: ci si riferisce alla sentenza del 2 settembre 2011 emessa dal Tribunale di Tolmezzo (testo integrale a questo link), ove all’organo giudicante veniva posto il quesito “se tali conseguenze (pregiudizievoli) verificatesi successivamente e nonostante che il 23 maggio 2002 fosse stato effettuato un intervento di sterilizzazione tubarica al fine proprio di evitare ulteriori gravidanze, siano da attribuirsi unicamente al fatto che lo stesso (intervento), anche se in percentuale ridotta, poteva anche di per se stesso non essere efficace allo scopo predetto, ovvero se era ravvisabile un nesso eziologico tra l’intervento e gli esiti dannosi di che trattasi per non essere stato eseguito (il primo) in maniera adeguata secondo i dettami della scienza medica”. La prima delle due ricostruzioni fattuali è similare a quella proposta dalla difesa dell’Azienda ospedaliera Spedali Civili di Brescia, ossia che il fallimento dell’operazione di sterilizzazione fosse riconducibile al (seppur minimo) margine di fallibilità proprio del suddetto intervento.

In questo caso, e in quello posto all’attenzione del Tribunale di Tolmezzo, dirimente è stata la relazione peritale che ha rilevato come l’intervento del chirurgo ginecologo non fosse stato praticato con diligenza e prudenza, secondo i dettami della scienza medica: “Più specificatamente il nominato consulente tecnico (d’ufficio) ha evidenziato come nella descrizione dell’atto operatorio al nostro esame, così come risultante nel referto riportato nell’elaborato peritale, sia emerso che il chirurgo si sarebbe limitato a sezionare la tuba dopo averla legata, ossia si sarebbe limitato ad interrompere la continuità della medesima, senza però asportarne un tratto sufficientemente ampio, omettendo quindi di compiere tutte le operazioni la cui esecuzione è indispensabile per assicurare il buon esito dell’intervento, giusta la già citata letteratura medica” (Tribunale di Tolmezzo, 2/9/2011). Pertanto, seguendo il criterio del “più probabile che non” la CTU ha accertato la sussistenza di un rapporto consequenziale tra l’inadempimento colposo dei sanitari e la successiva gravidanza indesiderata. Ne consegue che, in generale, sarà interesse della struttura convenuta in giudizio provare l’avvenuta esecuzione a regola d’arte della prestazione sanitaria al fine di escludere tale nesso eziologico.

 

DIRITTO AL CONSENSO INFORMATO

In secondo luogo, occorre approfondire la possibilità che in tali fattispecie venga altresì leso il diritto al consenso informato – il quale ha recentemente assunto maggior rilievo nel nostro ordinamento con l’entrata in vigore della legge n. 219 del 2017 – a causa della lacunosità o poca chiarezza delle informazioni relative all’intervento di sterilizzazione. Infatti, è capitato che la struttura sanitaria coinvolta, pur non negando di non aver adeguatamente reso nota ai pazienti la possibile fallibilità dell’operazione, si giustificasse asserendo che questo elemento non avrebbe ad ogni modo influito sulla decisione di sottoporsi o meno all’intervento: si tratta, infatti, di una percentuale di insuccesso talmente irrisoria che si potrebbe ben ritenere che la paziente avrebbe comunque dato il proprio consenso ad effettuare la sterilizzazione tubarica.

 

Sul punto è intervenuta la Suprema Corte, chiarendo che qualora gli operatori sanitari coinvolti non forniscano adeguata ed esauriente informazione in merito ad ogni aspetto dell’operazione (non solo le modalità di attuazione, ma altresì gli eventuali rischi) è in ogni caso configurabile da parte loro un inadempimento:

 

Ora, se il mancato raggiungimento del risultato non determina l’inadempimento, ove non sia consequenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole omissione dell’attività sanitaria, deve tenersi presente che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, non solo con riguardo alla corretta esecuzione della prestazione sanitaria ma anche con riferimento a quei doveri di informazione e di avviso, definiti prodromici e integrativi dell’obbligo primario della prestazione” (Cass. civ. sez. III, 24/10/2013, sent. n. 24109; è possibile consultare il testo integrale della pronuncia a questo link).

La ratio di questa conclusione è evidente: è assolutamente necessario che i medici garantiscano un’informazione chiara e completa riguardo all’intervento chirurgico, nonché sulle conseguenze che da esso potrebbero derivare, poiché tale informazione non solo andrà ad incidere sulla decisione di procedere o meno con l’operazione, ma condizionerà altresì le future scelte di vita della paziente. Ad esempio, nel caso concreto la conoscenza della minima percentuale di fallibilità dell’intervento di sterilizzazione (forse) non avrebbe persuaso la donna a non sottoporvisi, ma avrebbe potuto far sì che la coppia ricorresse in seguito a metodi contraccettivi di supporto – per scongiurare qualsiasi rischio di un’ulteriore gravidanza – oppure che effettuasse alcuni controlli post-operatori per verificare l’esito positivo dell’operazione.

Secondo la summenzionata pronuncia della Corte di legittimità il diritto al consenso informato non può, pertanto, essere limitato solo in ragione della lievità dell’informazione ai fini dell’effettivo convincimento dell’individuo: un’informazione adeguata è essenziale ai fini dell’assunzione di una scelta di cura ponderata e consapevole. Ne consegue che, in assenza di un’informazione di tal tenore, si configurerebbe la violazione non solo del diritto alla salute della paziente, costituzionalmente tutelato all’art. 32 Cost., ma altresì di diritti in capo alla coppia di genitori che trovano il proprio fondamento nel combinato disposto degli artt. 2 e 13 Cost.: ci si riferisce al diritto alla procreazione cosciente e responsabile e alla pianificazione familiare, che non sono altro che espressioni della libertà di autodeterminazione che il testo costituzionale riconosce a ciascun individuo.

 

Alla luce di quanto enunciato, risulta equa la condanna della struttura sanitaria al mantenimento del bambino inatteso per tutto il periodo di vita in cui normalmente i figli sono a carico dei loro genitori, ossia il risarcimento del danno patrimoniale derivante alla coppia a causa dei costi ulteriori che la famiglia dovrà sopportare per l’aggiungersi di un nuovo membro; ciò specialmente in considerazione del fatto che le ragioni che spingono dei genitori a non avere dei figli sono spesso di tipo economico.

 

DETERMINAZIONE DEL QUANTUM

Per quanto riguarda la determinazione del quantum debeatur, il Tribunale di Reggio Emilia con sentenza n. 1298 del 7 ottobre 2015 ha stabilito quanto segue: “E’ indubbio che la nascita di un figlio comporti delle spese, necessarie per il suo mantenimento e la sua educazione fino a raggiungimento della sua indipendenza economica, le quali costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medico e soddisfano l’ulteriore requisito della prevedibilità del danno ai sensi dell’art. 1225 c.c.. Deve pertanto ritenersi che, come allegato dagli attori, il danno economico risarcibile sia costituito dalle spese che i due genitori dovranno sostenere per il mantenimento del figlio fino alla sua indipendenza economica, che può presuntivamente farsi coincidere con il compimento del 23 esimo anno di età (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011). Venendo alla quantificazione del predetto pregiudizio, la stessa non può che essere effettuata in via equitativa, data l’oggettiva difficoltà di fornire la prova del danno”. Nel caso in esame, il Tribunale di Reggio Emilia aveva proceduto all’effettiva individuazione del quantum mediante il medesimo calcolo recentemente impiegato dai giudici bresciani: moltiplicando l’importo pari al costo minimo mensile per il mantenimento di un figlio (ossia €.300,00) per i mesi di vita necessari al raggiungimento della sua indipendenza economica (12 mesi x 25 anni).

 

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